Andrea B. era fatto così, per lui era perfettamente naturale essere com’era, naturale vivere la sua identità, i suoi sentimenti e tutte le espressioni di sé così come sgorgavano dal suo cuore puro di undicenne. Che ne poteva sapere di cambiamenti e attraversamenti dolorosi da un luogo di sé a un altro? La questione capitale dell’identificazione in un genere, che toglie il sonno a tanta parte dell’umanità, per Andrea non era, non poteva essere un problema. A meno che qualcuno avesse principiato a rappresentarglielo come tale, fenomeno che cominciò a verificarsi ben prima dello scoccare di quell’undicesimo anno della sua vita. Quanto mai poteva importargli in quale categoria sessuale fosse collocabile, in quale dossier fosse reperibile? Dei concetti biologici e culturali di maschile e femminile, prima non ne aveva cognizione, poi, quando se ne rese conto, cominciò a considerarli superflui e persino un po’ sciocchi. Senza contare che sarebbero andati in aperto contrasto con la sua libertà. Rifiutava in particolare i rigidi e invalicabili stereotipi sui ruoli di genere. Ne intuiva il senso comune, ne coglieva persino i sedimenti culturali, antropologici diremmo noi, ma rivendicava il suo diritto a superarli. Per chi interessa, Andrea appartiene al segno zodiacale dell’Acquario, essendo nato nella prima metà di febbraio. E poiché è apparso al mondo visibile allo scoccare del mezzogiorno, ha l’ascendente in Gemelli (anche qui, per quel che vale, ci siamo abbastanza. Tra l’altro, si tratta di due segni d’aria, libera e pulita come lui). Non è stato facile per nulla inserirlo senza colpo ferire nel primo ciclo scolastico, già notoriamente complicato, difficile, pericoloso per chi non si presenta conforme a certi schemi e dove chi non è leader diventa gregario. O peggio, molto peggio di questo. In verità neppure alla scuola materna è stata una passeggiata a piedi nudi su un prato all’inglese. Non tanto per gli altri bambini, salvo quelli che pur così piccini avevano già assorbito dai parents la struttura mentale dei compartimenti, delle categorie, delle cose buone e giuste che non vanno mai disattese, mai tradite. Insomma, fatti salvi quelli che, loro malgrado, avevano già respirato della mal’aria tra le mura domestiche. No, non tanto per loro quanto per il bisogno delle educatrici di collocare e appellare: … Dove lo mettiamo a giocare? Con chi si siede per disegnare? Come ci rivolgiamo a… lui? L’atteggiamento prevalente (pur con encomiabili sforzi di normalizzazione e di superamento) era quello dell’imbarazzato stupore. Bambino o bambina? Se gli vanno i capelli negli occhi che dobbiamo fare, le trecce o la coda o niente proprio? Onde evitare (quantomeno) il problema della sua folta chioma, i genitori proposero all’esordio delle primarie un taglio cortissimo, dimostrando che è uso ambosessi. Un paio di volte accettò di farlo, ma con scarso entusiasmo. Anche se stava benissimo, bello com’era, anche con i capelli di un centimetro o giù di lì, amava troppo i suoi capelli lunghi oltre le spalle, di un castano chiaro inusuale, con quei leggeri colpi di sole sulle punte, mom’s handmade. Gli piaceva sentirseli svolazzare sul viso e quando voleva li annodava agilmente, con o senza pinze e bastoncini. A nessuno mai passava per la mente che l’unico a decidere di se stesso, l’unico depositario di identità, ruoli e orientamenti che lo riguardino; e il primo d’ogni altro a cercare di fare chiarezza nella nebulosa dei suoi atteggiamenti atipici di genere, non fosse altri che lui, Andrea. Nel periodo prescolastico gli altri bambini, salvo quelli già precocemente contaminati da una scellerata “educazione” parentale, non ci hanno messo molto ad abituarsi. I bambini di prima e seconda infanzia sono più plastici, hanno una purezza sorgiva nel loro neonato sistema neuronale e il Superio è tutto da costruire, nel bene come nel male. Hanno fatto in fretta ad accettare che ci fosse uno di loro che giocasse indifferentemente con i maschi o con le femmine solo in funzione di quel che gli piaceva di più in quel momento. Con buona pace di chi considerava Andrea un cattivo esempio per i suoi coetanei, dei quali andava pur sempre preservata la conformità al genere biologico di appartenenza. Del resto, basta abituarsi alle cose, se si ha una buona predisposizione, primaria o secondaria, a farlo. Anche un marziano dopo un po’ di tempo comincerà a sembrarti più o meno uguale a te se smetti di pensare continuamente da dove viene, quale sia il suo stile di vita e come sia possibile che abbia gli occhi tanto grandi e la bocca tanto piccola e come faccia a esprimersi in una lingua diversa da quelle conosciute. Basterebbe inventarsi una “lingua franca”, un nuovo esperanto, e l’ostacolo linguistico sarebbe superato come per magia. Per i bambini sarebbe un gioco meraviglioso. Per gli adulti una grande conquista, molto più complicata e difficile, giacché la metafora degli ET ne rappresenta la loro generale compromissione con le sindromi da algide rigidità mentali e da moralità tanto esibite quanto false. In molti casi costruzioni tanto resistenti da respingere anche le cannonate che abbatterono le mura di Costantinopoli. Nicoletta e Antonio guardavano i suoi occhi grigi sfumati in un azzurro carico sulla corona dell’iride che parlavano silenziosi di mondi bellissimi che solo lui poteva vedere, e quel sorriso che scaldava il cuore di tenerezza. E si chiedevano cosa sarebbe accaduto ad Andrea, percorrendo avanti e indietro tutto il complesso glossario delle terminologie LGBT+. Non poche volte i loro sguardi si velavano di lacrime, mentre condividevano gli stessi pensieri e le stesse paure. Ma loro lo avrebbero difeso, loro l’avrebbero difesa, qualunque cosa fosse accaduto. 

Renato